Di dissapori tra cantanti e giornalisti, o discografici, è piena la storia della musica italiana. In tre casi clamorosi, però, queste liti finirono in una canzone. Cominciamo con la più lontana nel tempo.

Guccini e Bertoncelli
Siamo nel 1974 e Francesco Guccini pubblica il suo quinto album, Stanze di vita quotidiana. Molti anni dopo lo stesso Guccini lo inserirà tra i suoi dischi meno riusciti, figlio di un suo periodo difficile. La critica lo accolse comunque positivamente. Sul mensile Gong, rivista specializzata in progressive rock e free jazz, uscì una recensione firmata da un redattore giovanissimo, sedicenne, che aveva invece diversi dubbi su quel disco e li espresse molto duramente. “Buona parte della tristezza sciorinata lungo queste Stanze – diceva tra l’altro l’articolo – (tristezza feroce, impietosa, senza deroghe o pentimenti) credo vada a parare all’angolo del ruolo che l’uomo sa di avere assunto oggi come oggi; la poesia è un pezzo di carta da consegnare al pubblico e non mai un esercizio di rabbia/purificazione intima, la musica è una vecchia stampa con cui tappezzare il salotto dell’acquirente e meno che mai la scintilla individuale del ‘mi piace’ o dell”io la penso così’.” O Ancora: “Francesco Guccini non appartiene più a se stesso: e finisce col ripetersi..”. Firmato: Riccardo Bertoncelli.
Poco dopo si sparse la voce che durante i suoi concerti, come spesso farà in tutta la sua carriera, Francesco Guccini proponeva una canzone inedita, che il pubblico gradiva particolarmente. Era un’invettiva contro l’ambiente discografico e tutto il corollario, pubblico compreso. Nella canzone però si facevano anche i nomi, anzi, i cognomi, anzi, solo uno: Bertoncelli.
Secondo Guccini, Bertoncelli non capiva niente di musica. Secondo Bertoncelli, Guccini era già sul viale del tramonto nel 1974. Finisce che i due si incontrano, nel ’76, e passano una serata a chiacchierare in Via Paolo Fabbri 43, con annessi enogastronomici che possiamo immaginare, e quando si salutano a notte fonda sono diventati amici. Guccini dice a Bertoncelli che comunque non pubblicherà quella canzone, e se lo farà toglierà il suo nome. Bertoncelli ribatte che invece dovrebbe farlo, e lasciandola così com’è. L’avvelenata chiuderà la prima facciata dell’album successivo, che avrà per titolo proprio l’indirizzo di casa Guccini a Bologna. E per più di quarant’anni sarà uno dei momenti più attesi dei live di Francesco Guccini.
Sempre nel 1976 un giovane aspirante cantautore ottiene un contratto discografico con un’etichetta che in quegli anni aveva lanciato diversi nuovi autori: la IT di Vincenzo Micocci. Il contratto ha una durata di due anni, durante i quali la pubblicazione del primo album è continuamente rinviata. Passato un biennio di sostanziale inattività, il giovane cantautore è di nuovo senza casa discografica, e senza un disco pubblicato, ma riesce a far ascoltare le sue canzoni al paroliere Alberto Salerno e attraverso la sua intercessione, e quella della consorte e discografica Mara Maionchi, ottiene un contratto discografico con la Polygram. Inizia a incidere le canzoni per il suo primo album, una produzione importante che vede tra i musicisti buona parte della Premiata Forneria Marconi. L’album vedrà la luce nel 1979, e porterà semplicemente il nome del suo autore: Alberto Fortis.
Sarà un successo, anche se la radio e la tv di Stato si rifiuteranno di trasmettere il singolo che lo lancerà, perché troppo violento. Ci penseranno le neonate radio libere a diffondere ovunque una canzone, Milano e Vincenzo, nella quale Fortis da una parte dichiara il suo amore a Milano (non come Roma, che lo ha tenuto fermo due anni!) e soprattutto si scaglia contro la persona che lo aveva ingabbiato: “Vincenzo io ti ammazzerò/sei troppo stupido per vivere!”.
Nel corso degli anni successivi i due avranno modo di spiegarsi e fare pace, tanto che Fortis inciderà una nuova canzone intitolata Vincenzo io t’abbraccerò e Micocci intitolerà la sua autobiografia (2009) proprio Vincenzo io ammazzerò!, chiedendo addirittura a Fortis di firmare la prefazione.
Più o meno nel periodo in cui spopolava Milano e Vincenzo, un giovane rocker faceva una delle sue prime apparizioni televisive. Siamo quasi a Natale del 1980, a Bologna c’è il Motor Show e si accendono le telecamere di Domenica in, all’epoca seguitissimo contenitore condotto da Pippo Baudo. Il collegamento si chiude con una canzone, Sensazioni forti, cantata da un quasi esordiente ex dj di Zocca e contenuta nell’album Colpa d’Alfredo. Il giovane Vasco Rossi, con intorno i compagni di sempre (Maurizio Solieri e Massimo Riva in prima fila) fornisce un anticipo delle performance che faranno la sua fortuna, senza impressionare troppo il pubblico.
Qualche giorno dopo esce sul popolare settimanale Oggi, un articolo firmato da uno degli editorialisti di punta del giornale, Nantas Salvalaggio, intitolato Anche alla TV c’è l’”ero” libera. Nell’articolo Salvalaggio si scaglia contro l’esibizione di Vasco Rossi, definendolo “un bell’ebete, anzi un ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumè dello zombie, dell’alcolizzato, del drogato “fatto”.”
E ancora, analizzando il testo della canzone: “Diceva in parole povere: emozioni forti, sensazioni violente, questo voglio, violente sensazioni, sempre più forti, anche se il prezzo da pagare è la vita…”. In un crescendo di sdegno, Salvalaggio accusava il giovane Vasco Rossi di instradare i giovani all’uso dell’eroina, “come quel tale Lou Reed, che a Milano si pronuncia giustamente Lùrid”, concludendo con un appello ai vertici Rai affinché si evitassero nuove esibizioni del genere, insinuando che qualche politico avesse raccomandato “il Vasco suonato”.

La lettera di mamma Novella
All’editorialista giunse qualche tempo dopo una breve lettera scritta con grafia infantile e sintassi incerta da Novella Corsi in Rossi, mamma di Vasco, nella quale con fermezza e infinita tenerezza, la signora difendeva suo figlio: “Vasco non è né un drogato né un santo, ma è onesto come suo padre e a me basta. Le auguro che anche sua moglie e i suoi figli possano pensare altrettanto di lei.”
Anche Vasco non riesce a trattenere troppo il sassolino nella scarpa, e si vendica con il linguaggio che meglio conosce, quello della canzone. Lo fa dalla ribalta più importante, il Festival di Sanremo del 1982. “Voglio veder come va a finire/Andando al massimo senza frenare/Voglio vedere se davvero poi/Si va a finir male/Meglio rischiare, che diventare/Come quel tale, quel tale/Che scrive sul giornale”, canta Vasco in Vado al massimo, guadagnando per la prima volta la finale e consumando così la sua terribile vendetta.
A differenza dei primi due casi, non risulta nessuna riappacificazione tra i due.